‘O chianchiere

Il mio chianchiere (alias macellaio) si chiama Marco. Lo conosco da anni ma non mi ricordo quanti. Marco è il macellaio che ha la sua bottega sotto al palazzo dei miei genitori.

Buongiorno, buonasera, come va.

Ma conosco il suo soffritto dall’odore prima e dal sapore poi che non saprei descrivere ma che ti raggiunge fino a casa, due piani sopra la sua bottega. Ma oltre alle sue delizie gastronomiche Marco mi ha sempre regalato il suo sorriso. Il suo e quelli di sua moglie che lo aiuta nel negozio. Poi un giorno mi sono fermato e Marco mi ha raccontato la sua storia.

Io l’ho sempre visto come il macellaio nella sua mansione, nella mia mania di “valutare i rischi” e l’ho visto come il lavoratore che per lavorare idoneamente deve indossare il grembiule per sfasciare i pezzi di carne più grandi, il guanto di ferro per tagliare la carne, le scarpe con puntale ed il giubbottino termico per accedere alla cella frigo.

Ma non credo che Marco sappia tutto questo!!!!

Lui è cresciuto come suol dirsi “in mezzo alla strada” o meglio nella bottega del masto. Oggi ha 44 anni e da 30 lavora (o meglio vive) nella sua macelleria. Dalle 8,30 alle 21,00 tutti i giorni chiaramente esclusi i giovedì pomeriggio e le domeniche. Parliamo di circa 70 ore a settimana. Alla faccia dei contratti da 36 o 40 ore!!!!!!!!!!!!!!!

Ma Marco è un “datore di lavoro“: di sè stesso, di sua moglie e dei suoi figli che gli danno una mano nel negozio. Lui è cresciuto in un quartiere difficile per non dire complicato per non offendere nessuno con parole più esplicite. Padre e madre divorziati e 5 fratelli. La sua storia di macellaio è cominciata con un cugino macellaio il 25 agosto di tanti, troppi anni fa che lo “raccomandò” per fare questo mestiere.

Un ragazzo con il titolo di 3a media che per evitare di restare in strada ha cominciato a fare il ragazzo di bottega. E se a 17 anni era un ragazzo di bottega a 21 anni è diventato il titolare della macelleria. Con fierezza e senza mai eliminare quel bel sorriso dal suo viso suadente mi mostra i “segni della battaglia“: le ferite di 2 dita nel tritacarne e alcuni tagli alle mani per i coltelli.

Ma quelle per Marco non sono ferite sono medaglie che fanno onore alla sua professione di macellaio. Marco non sa cosa sia il D.Lgs. 81/08. Non conosce le regole e le norme della sicurezza sul lavoro. Marco conosce la strada e le difficoltà che ha dovuto superare e che ancora affronta tutti i giorni. Marco non conosce la differenza tra “pericolo” e “rischio“. Marco non sa che il tritacarne ha una protezione per evitare di “infilarci” le mani.

Marco la carne la deve toccare, plasmare, accompagnare nel tritacarne.

Marco però conosce mille modi per farsi male e per evitare di farsi male. La sua esperienza con le sue ferite lo porta a svolgere il suo lavoro nel migliore dei modi. Anche senza protezioni. E se gli parli di scarpe di sicurezza, di guanti e grembiule di protezione, lui se la ride. E ti fa fesso con quel suo sorriso coinvolgente.

E se gli chiedi: Come ti senti? Lui ti risponde: Ho la schiena a pezzi E li non so cosa rispondere.

Forse le 70 ore settimana sono troppe?

Forse la postura incongrua di stare sempre in piedi non è la migliore delle condizioni?

Forse movimentare pezzi di carne di peso eccessivo sicuramente non è benefico?

Ed a quel punto non puoi che ricambiare con un sorriso e salutarlo ringraziandolo per aver condiviso la storia della sua vita,

Non prima che Marco dica: Ingegne’ aggiù fatt ‘o soffritto oggi. Che fate non lo provate?

 

Ing. Carmine Piccolo

 

L’uomo con la barba bianca

No. Non è babbo natale.
Ma comunque era una persona speciale e forse unica nel suo modo di essere.
Non sempre buono. Ma sicuramente non cattivo.
Non sempre simpatico. Ma sicuramente non antipatico.
Non sempre preparato. Ma molto di più.
Il mio maestro, il mio mentore.
Non è stato facile condividere con lui un pezzo della mia vita ma quello che oggi so (forse anche quello che non so), quello che sono, oggi lo devo a lui, anche nei suoi difetti.
Era nato a metà degli anni ’40 e ’50 in un giorno particolare l’8 marzo. E lui platonicamente amava tutte le donne.
Ma non è importante dove sia nato e quando. Ma dove aveva maturato la sua esperienza lavorativa.
Lui aveva cominciato il suo percorso lavorativo all’ ENPI.
Ma cos’era l’ ENPI? E cosa faceva? I più giovani non lo sanno, ma per fortuna Wikipedia ce lo ricorda:

L’Ente Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni (ENPI), fondato nel 1932 a partire dall’esperienza di alcuni precedenti associazioni industriali per la prevenzione degli infortuni sul lavoro come l’AIPI e l’Associazione Nazionale Prevenzione Infortuni (ANPI), trasformato nel 1936 in ente parastatale, riconosciuto come Ente Nazionale di Propaganda per la Prevenzione degli Infortuni nel 1938 assunse la denominazione di Ente Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni (ENPI) nel 1952. Scopo dell’ente era “promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, nonchè l’igiene del lavoro” attraverso un’opera di sensibilizzazione, consulenza e propaganda contro gli infortuni. L’ente fu soppresso nel 1978 e le relative competenze furono assegnate alle USL.

E l’uomo dalla barba bianca aveva mosso come già detto i suoi passi proprio all’ ENPI e poi dopo un breve periodo all’ USL (un tempo le ASL si chiamavano così), aveva continuato il suo percorso lavorativo all’ ISPESL istituito con decreto del 1980.E l’ISPESL chi era? E cosa faceva? Anche qui i Wikipedia ci aiuta e ci ricorda cosa faceva:

L’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (in acronimo ISPESL) era un ente di diritto pubblico del settore della ricerca, sottoposto alla vigilanza del Ministero della salute. Era organo tecnico-scientifico del Servizio Sanitario Nazionale per la ricerca, sperimentazione, controllo, consulenza, assistenza, alta formazione, informazione e documentazione in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, sicurezza sul lavoro e di promozione e tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro, del quale si avvalevano gli organi centrali dello Stato preposti ai settori della salute, dell’ambiente, del lavoro, della produzione e le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Era, altresì, punto di riferimento italiano nel network informativo dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro. Con l’art. 7 del decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010 (convertito nella legge n. 122 del 30 luglio 2010), l’ISPESL viene soppresso e le relative funzioni, con decorrenza dal 31 maggio 2010, sono state attribuite all’INAIL.

L’ uomo dalla barba bianca è salito in cielo prima dello scioglimento dell’ISPESL del 2010 confluito poi nell’ INAIL ma sicuramente il suo percorso professionale ha lasciato il segno in chi lo ha conosciuto.
40 anni trascorsi tra ENPI ed ISPESL non sono una eternità ma sicuramente sono una vita.
Una vita a promuovere la sicurezza sul lavoro per prevenire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali come ENPI e poi, come ISPESL, a svolgere attività di formazione, assistenza, consulenza.
Io l’ho conosciuto solo nel 2000 ed ho percorso con lui un pezzo della mia vita professionale.
Insieme a me lo hanno conosciuto tanti professionisti che hanno partecipato alle sue lezioni nei corsi per Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione e per Coordinatori per la sicurezza.
Le aule erano sempre piene anche fino a centinaia di persone. E sue lezioni erano sempre seguitissime e partecipate.
Ed oggi posso confermare che parecchi suoi discenti sono professionisti preparatissimi in materia e svolgono il ruolo di RSPP e CSE/CSP con competenza e professionalità
La sua maestria nel parlare del D.P.R. 547/55, del DPR 303/56 e del DPR 164/45 era unica.
Per non parlare poi del D.Lgs. 626/94 e D.Lgs. 494/96.
Lo so parlo da “vecchio”, ma non si può parlare di “81/08” senza conoscere le “basi normative” e la storia della “sicurezza sul lavoro”.
Il D.Lgs. 81/08 l’uomo dalla barba bianca non ha avuto il tempo di leggerlo.
Ma non avrebbe avuto bisogno di farlo. Lui la norma, i regolamenti, le buone prassi le aveva nel DNA e forse Lui avrebbe potuto scriverlo meglio con l’esperienza e le conoscenze che aveva.
Ancora oggi i professionisti della mia generazione rimpiangono la qualità dei suoi corsi ed ancora oggi tutti mi chiedono, come me lo chiedevano durante i corsi: ma l’ uomo dalla barba bianca è un ingegnere?
Forse perché tutti pensano che un ingegnere debba sapere tutto ed in particolar modo di sicurezza (e vi ricordo che chi scrive è un ingegnere!!!)
Io non ho mai risposto a questa domanda non perché non sapessi che studi avesse fatto ma soltanto perché la sua conoscenza della materia non si poteva rapportare al percorso di studi svolto.
Come detto Lui non l’ha conosciuto il D.Lgs. 81/08 e non ha visto lo scioglimento dell’ISPESL.
È andato via un giorno di gennaio (San Mario) e nella mia mente ancora ricordo il vestito “bello” che aveva quel giorno, lo stesso che indossava quando faceva lezione e le scarpe belle quelle che gli piacevano, lisce ma senza il cinturino.
Piccoli particolari che fanno capire la meticolosità e la precisione nei dettagli dell’uomo della barba bianca.
Ed il segno che la sua esperienza, la sua capacità comunicativa ha lasciato in chi lo ha conosciuto resta indelebile anche con il passare degli anni. Così come è capitato a me ed a tanti altri.

E proprio perché la cultura della sicurezza non si acquista ma si conquista, si elabora, ti trasforma, il suo bagaglio culturale e di conoscenze legate alle sue esperienze non lasciava mai nessuno insensibile anzi coinvolgeva, motivava ed incuriosiva.
La cultura della sicurezza non si ottiene e realizza con ispezioni e controlli e non si diffonde con attestati di partecipazioni a corsi senza anima, contenuti e passione.
La cultura della sicurezza è un’emozione, è una passione che si trasmette e ti contagia.
E Lui, l’uomo dalla barba bianca, Bruno, emozionava e contagiava tutti quelli che incontrava sul percorso di vita professionale ed umana. E lasciava un segno indelebile che ti accompagna per tutta la vita come è capitato a me.
Grazie maestro. Grazie Dott. (come io lo chiamavo). Grazie per il pezzo di vita trascorso insieme.

 

Ing. Carmine Piccolo

Che rabbia!!!

Nel 2014 (11 anni fa !!!!) organizzammo un corso di formazione per addetti al montaggio di ponteggi autosollevanti e per addetti al montaggio di ascensori e montacarichi di cantiere.
Prevedemmo anche un corso di formazione per utilizzatori dei ponteggi autosollevanti e ascensori e montacarichi di cantiere per dare le corrette informazioni ai lavoratori che operavano sulle suddette attrezzature.

Sapete quante persone si sono iscritte in questi anni? NESSUNO (tranne 1)
Purtroppo il corso non è obbligatorio e non è inserito nelle attività formative di cui all’Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012.
E nemmeno l’Accordo Stato Regioni del 17 aprile 2025 ha introdotto nessun obbligo formativo per tali attrezzature.
Ci resta l’art. 73 del D.Lgs. 81/08.
Ma forse è troppo poco per lasciare al datore di lavoro il compito di informare, formare ed addestrare i lavoratori sui rischi cui sono esposti durante l’uso delle attrezzature di lavoro.
Può andare bene per un trapano e un flex. Ma non sicuramente per un’attrezzatura come un ponteggio autosollevante e per un ascensore/montacarichi di cantiere. E per chi quelle attrezzature le monta!!!!
Non ci resta oggi che l’amarezza per quel corso che avevamo organizzato nel 2014 e mai realizzato, che forse avrebbe salvato la vita di molti lavoratori.

p.s. L’unico corso lo abbiamo organizzato per gli operatori di Elevateur s.r.l., partner dell’iniziativa.

Ing. Carmine Piccolo

Salvatore

Sono cresciuto in una fabbrica di scarpe. Anzi due.
Mio nonno aveva una fabbrica di scarpe da uomo. I tubolari. Oggi non si “portano più” ma erano scarpe uniche perché il piede poggiava sulla tomaia.
Mio padre invece lavorava in una fabbrica di scarpe da donna. Scarpe “décolleté”. Anche quelle “non si portano più”.
E comunque molti pomeriggi li ho trascorsi nella fabbrica di mio nonno per aspettare di tornare a casa con i miei zii quando abitavo in periferia ed ero “troppo piccolo” per prendere l’autobus da solo.
Invece le domeniche accompagnavo mio padre in fabbrica perché mio padre aveva sempre qualcosa da fare. Anche la domenica mattina. Anche il sabato, manco a dirlo, era lavorativo.
Della fabbrica di mio nonno ricordo i rumori delle macchine, le polveri della fresatura, ma quello che non posso dimenticare è il profumo della colla benzina.
Quante volte ho messo il naso nel barattolo e ho sparato con la pistola la colla sui residui di pelle che trovavo a terra attaccandomi le mani che per staccare poi dovevo usare l’acetone.
E poi la macchina per gli occhielli sui tubolari. Il mio gioco preferito.
Con quella mi sono divertito a fare i buchi sempre sui residui di pelle e per mia fortuna non mi sono mai fatto male perché per fare i buchi occorreva far girare una leva con la mano mentre con l’altra mano poggiavi l’occhiello sul ritaglio di pelle. E chiaramente mano destra e mano sinistra “comunicavano” e quindi era difficile farsi male. Se sentivi male ad un mano non giravi la manovella con l’altra!!!!
Ma la macchina quella bella, quella grande, quella che volevo utilizzare però è rimasta sempre un sogno!!!!.
La trancia. O meglio la pressa. Quella che si usa con due mani.
Quella che ha il doppio pulsante che se non li premi contemporaneamente non funziona!!!!
Quella che per farla funzionare meglio e fare prima il lavoro ci metti sempre un pezzo di scotch su uno dei due pulsanti.
Ma io che sfortuna. Non sono mai riuscito ad accenderla!!!!!.
Quel “fetente” del tagliatore (oggi ringrazio quel fetente buonanima) toglieva la corrente prima di andare via la sera.
Forse sapeva che c’era in giro un ragazzino di 10 anni che nel pomeriggio avrebbe tentato di mettere in moto la trancia per giocare sempre con quel ritaglio di pelle che aveva trovato a terra.
Con mio padre invece mi divertivo con la fabbrica ferma.
Non c’era rumore la domenica mattina.
Mi padre invece che in quella fabbrica ci stava più di 50 ore (e molte di più!!!) alla settimana (sabati compresi) è diventato sordo.
Per fortuna sta bene ma immaginate le difficoltà di mia madre per farsi capire oggi.
E la domenica mattina io potevo giocare “solo” con la manovia, con i carrelli, con qualche attrezzo da lavoro, un po’ di colla benzina. E gli occhielli quelli non c’erano. Erano, come detto, scarpe da donna “décolleté”.
E la corrente in fabbrica non ci stava quindi non potevo accendere la trancia.
Ed il modellista aveva nascosto i coltelli da taglio. (altro fetente buonanima).
Ma tornando alla fabbrica del nonno, lì ci stava Salvatore.
Un operaio tuttofare.
Era nato e cresciuto in quella fabbrica di scarpe tubolari.
Tagliatore, modellista, fresatore, “apprettista” ed altro ancora e ancora.
La scarpa la costruiva e la faceva vivere.
Ma poi le scarpe tubolari cominciarono a non vendersi più. Erano brutte e non di moda.
E la fabbrica del nonno chiuse come tante altre fabbriche di scarpe.
E Salvatore?
Pensò bene di aprire un negozio di ciabattino per riparare le scarpe.
Immaginate quella figura di ciabattino nel suo negozio pieno di scarpe vecchie, con quell’“odore” di scarpe vecchie e usate che messe tutte insieme quasi quasi possiamo dire che non fanno puzza ma “fanno negozio di ciabattino
Lui curvo sulla sua sedia, sulla cui forma poggiava la scarpa da riparare.
Che lavorava nel suo negozietto (alias piccolo ambiente di lavoro) con la colla benzina per attaccare i pezzi da riparare e con l’appretto per le tomaie che fanno le scarpe più belle e lucide. Chiaramente senza alcun impianto di aspirazione.
Per non parlare delle “semmenzelle”. Quelle che si mettono in bocca per far prima!!!!!!!!!
E le cose (ossia gli affari) non andavano male. Ma nemmeno tanto bene.
Eppure Salvatore era felice perché faceva il lavoro che aveva sempre fatto e che sapeva fare bene: dava una seconda vita alle scarpe.
Ma Salvatore una seconda vita non l’ha potuta vivere. Una brutta malattia l’ha portato via.
Non sappiamo perché è morto Salvatore. Ma una cosa la sappiamo: Salvatore non ha mai utilizzato un paio di guanti in lattice (quelli da poche lire per non dire pochi centesimi) ed una mascherina minimo del tipo FF2 (anche quella di pochi centesimi).
Perché Salvatore la sicurezza sul lavoro non l’ha mai conosciuta e figuriamoci se Salvatore poteva pensare di utilizzare una mascherina ed un paio di guanti per fare il suo lavoro.
E le domanda di oggi sono:
Quanti Salvatore sono morti per non aver utilizzato guanti e mascherine di protezione?
Quanti danni avranno fatto le esalazioni di colla benzina e l’appretto delle tomaie a mani nude?
Oggi me lo chiedo. E vorrei dirlo a tutti (anche se pochi!!!) quegli operai dei calzaturifici che sono rimasti ancora operativi per poter fare in modo che una brutta malattia non li porti via come Salvatore.
Ah dimenticavo di scriverlo. Salvatore era mio zio.

Ing. Carmine Piccolo

Le FDM

Entrare in aula per formare dei lavoratori non è mai facile. Sai già che i lavoratori si annoieranno e sicuramente sarà scarso l’interesse alla materia della sicurezza sul lavoro. O almeno lo è fino a quando non riesci ad interessarli e motivarli.

Per i datori di lavoro (speriamo per pochi!!!) la formazione non è mai un investimento, ma un obbligo “che costa”. Il lavoratore deve essere formato durante l’orario di lavoro quindi oltre a pagare per formarlo devo anche pagare per non farlo lavorare? Mah!!!!

Dicevo che entrare in aula da docente formatore non è mai facile.

I contenuti della formazione sono chiari e definiti. L’Accordo Stato Regione docet!!

Il problema è: ma quanto interessa al lavoratore l’art. x del D.Lgs. yy dell’allegato z?????

Poi mi chiedo: ma il formatore deve essere un tecnico, un comunicatore, un sociologo o addirittura uno psicologo (del lavoro chiaramente)?

Nessun problema: è sufficiente un attestato di cui al Decreto Interministeriale del 6 marzo 2013.

E poi ancora: Chi troverò in aula? Qual è la sensibilità alla materia che stai esponendo? Qual è il livello di istruzione scolastica?  E non sono rari i casi in cui il lavoratore ha difficoltà a leggere e compilare la scheda con i dati anagrafici. Figurarsi il questionario della verifica di apprendimento.

Senza parlare del lavoratore straniero!!!! Alla domanda se sia chiaro quanto stai dicendo la risposta è sempre la stessa: Si capito! (con un sorriso a 20 denti che ti sta dicendo che qualsiasi cosa tu stia spiegando per lui è tutto ok)

Ma le FDM, si le FDM hanno sempre effetto!!!

Diceva un mio amico carissimo (me stesso): l’esperienza è la sommatoria delle FDM.

Quindi entri in aula, cominci a raccontare le tue di FDM ed il lavoratore comincia ad abbattere le sue “difese”.

Abbatte la barriera di chi “io non sbaglio mai”, di chi “queste cose che stai dicendo già le so e meglio di te”, di chi “se lo dici un’altra volta porti male”, di chi “il mio lavoro lo faccio ad occhi chiusi, ed infine di chi “lo faccio tutti i giorni e non è mai successo niente” per poi arrivare al top in classifica dell’ABBIAMO SEMPRE FATTO COSI’!!!

Ed è a quel punto quando, dopo di te, il primo lavoratore ha cominciato a raccontare la sua FDM personale che inizia la gara con gli altri per raccontare la propria FDM. Quella più grande (sempre con un sorriso a 20 denti che questa volta vuol fare capire che lui è bravo!!!).

Ed il repertorio è il seguente ed è sempre lo stesso:

Non metto la cintura di sicurezza in macchina perché non serve. Magari la metto solo in autostrada.

Devo scendere dal carrello continuamente e perdo tempo ad allacciare e sganciare la sicurezza.

Sul flex mancava la “defensa”. Che facevo non lavoravo? Poi il masto mi cazziava.

Gli occhiali di protezione li ho avuti ma li lo lasciati sul furgone.

Il guanto di protezione dal taglio lo indosso su una sola mano.

L’imbracatura di sicurezza non la stringo troppo perché ho fastidio ai “gioielli di famiglia”.

Il casco lo metto solo quando serve perché mi fa sudare.

E la gara delle FDM più grandi e più avventate diventa la più bella lezione che ritieni di aver fatto nella tua esperienza da formatore. Ma forse la mia non è stata la più bella lezione da un punto di vista didattico

Però abbiamo condiviso tutti insieme esperienze positive e negative, procedure scorrette, mancati incidenti, non conformità comportamentali e forse abbiamo innalzato, sempre tutti insieme, la sensibilità alla problematica della sicurezza.

Forse abbiamo condiviso una cultura della sicurezza “di campo” raccontata e vissuta dal punto di vista degli attori, dei lavoratori e non dei testi normativi.

Vado via.

Spero di essere riuscito ed entrare nella testa e spero anche nel cuore di ogni singolo lavoratore.

In particolare se quando vanno via ti stringono la mano, forte e decisa, in segno di stima e di ringraziamento.

In fondo il docente è oggi è stato un loro amico, ed inoltre non li ha fatti annoiare ed in parte li ha fatti anche divertire.

E la speranza è che quando entreranno in macchina, un attimo prima di accendere il motore penseranno alla FDM propria e degli altri ed allacceranno la cintura di sicurezza, e forse in cantiere ricorderanno di mettere il casco ed in guanti ed allacciare la sicurezza anche sul carrello elevatore.

Perché in fondo una FDM resta sempre una FDM grande o piccola che sia.

Ing. Carmine Piccolo

La catena della solidarietà

Era di sabato. Ancora un sabato mattina.
La data era quella storica: l’11 settembre. Ma non quello del 2001. Quello del 2010.

Giuseppe, Antonio e Vincenzo erano stati chiamati per smontare un ponteggio all’interno di un recipiente utilizzato per la produzione di prodotti farmaceutici.
Erano semplici muratori, bravi nel loro lavoro (da muratori) che svolgevano da anni.
Ma non sapevano che in quel silos c’erano dei residui di lavorazione effettuati con una miscela di prodotti che impedivano la naturale presenza dell’ossigeno necessario per la respirazione.
Giuseppe è morto per tentare di salvare Antonio e Vincenzo che all’interno del silos avevano avvertito i primi malori dovuti all’assenza di ossigeno. È morto per la cosiddetta “catena della solidarietà”.

Giuseppe infatti rientra nella casistica che stima in circa il 60% delle vittime soccorritori in un incidente in uno spazio confinato dovuto alla catena di solidarietà.
In questi giorni “si celebra” la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del tanto atteso Accordo Stato Regioni che definisce le modalità e le tipologie di formazione da erogare ai lavoratori in ogni ambito: quello del 17 aprile 2025. La Gazzetta Ufficiale è la n. 119 del 24 maggio 2025 per chi non lo sapesse.

Ebbene.

Per gli “spazi confinati” ci sono voluti ben 14 anni per definire i contenuti della formazione previsti dal DPR 177 del 2011. 14 anni!!!!!!!!!
Per precisione però non chiamiamoli spazi confinati ma “ambienti sospetti di inquinamento o confinati”.
Anche se questa definizione “sospetti di inquinamento” devo dirvi che qualche volta non è piaciuta a qualche addetto ai lavori. Spazi confinati “suona meglio e fa meno paura”.

E poi occorre una Norma UNI, la UNI 11958:2024 (entrata in vigore il 14 novembre 2024) per definire la classificazione degli ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento, la identificazione e valutazione dei rischi, le procedure operative ed emergenziali, i DPI, nonché ruoli e compiti dei lavoratori.

Ma Giuseppe, Antonio e Vincenzo sono morti nel 2010.
Prima dell’emanazione del DPR 177/2011 e pochi anni (2) dopo il D.lgs. 81/2008.

Per precisione il D.lgs. 626/94 non parla di spazi confinati essendo contemporaneamente ancora in vigore il DPR 547/55.

Quindi Giuseppe, Antonio e Vincenzo sono morti 55 anni dopo l’emanazione del DPR 547/55 e come detto 2 anni dopo il D.Lgs. 81/08.

E quindi??????

Volevo qui solo riprendere e condividere alcune indicazioni (direi misure di prevenzione) richiamati dal DPR 547/55 e successivamente del D.Lgs. 81/08

DPR 547/55 Titolo VIII Materiali e prodotti pericolosi e nocivi

Art. 354 Concentrazioni pericolose – Segnalatori automatici

Nei locali o luoghi di lavoro, o di passaggio deve essere per quanto tecnicamente possibile impedito o ridotto al minimo il formarsi di concentrazioni pericolose o nocive di gas, vapori o polveri esplodenti, infiammabili, asfissianti o tossici; in quanto necessario, deve essere provveduto ad una adeguata ventilazione al fine di evitare dette concentrazioni.
Nei locali o luoghi indicati nel primo comma, quando i vapori ed i gas che possono svilupparsi costituiscono pericolo, devono essere installati apparecchi indicatori e avvisatori automatici atti a segnalare il raggiungimento delle concentrazioni o delle condizioni pericolose. Ove ciò non sia possibile, devono essere eseguiti frequenti controlli o misurazioni.

 

DPR 547/55 Titolo VI Impianti ed apparecchi vari

Art. 235. Aperture di entrate nei recipienti

Le tubazioni, le canalizzazioni e i recipienti, quali vasche, serbatoi e simili, in cui debbano entrare lavoratori per operazioni di controllo, riparazione, manutenzione o per altri motivi dipendenti dall’esercizio dell’impianto o dell’apparecchio, devono essere provvisti di aperture di accesso aventi dimensioni non inferiori a cm. 30 per 40 o diametro non inferiore a cm. 40.

Art. 236. Lavori entro tubazioni, canalizzazioni, recipienti e simili nei quali possono esservi gas e vapori tossici od asfissianti

Prima di disporre l’entrata di lavoratori nei luoghi di cui all’art. 235, chi sovraintende ai lavori deve assicurarsi che nell’interno non esistano gas o vapori nocivi o una temperatura dannosa e deve, qualora vi sia pericolo, disporre efficienti lavaggi ventilazione o altre misure idonee.
Colui che sovraintende deve, inoltre, provvedere a far chiudere e bloccare le valvole e gli altri dispositivi dei condotti di comunicazione col recipiente, e a fare intercettare i tratti di tubazione mediante flange cieche o con altri mezzi equivalenti ed a far applicare, sui dispositivi di chiusura o di isolamento, un avviso con l’indicazione del divieto di manovrarli.
I lavoratori che prestano la loro opera all’interno dei luoghi predetti devono essere assistiti da altro lavoratore, situato nell’esterno presso l’apertura di accesso.
Quando la presenza di gas o vapori nocivi non possa escludersi in modo assoluto o quando l’accesso al fondo dei luoghi predetti è disagevole, i lavoratori che vi entrano devono essere muniti di cintura di sicurezza con corda di adeguata lunghezza e, se necessario, di apparecchi idonei a consentire la normale respirazione.

E poi arriva il D.Lgs. 81/08 e che succede?

D.Lgs. 81/08 Art. 66 Lavori in ambienti sospetti di inquinamento

1. È vietato consentire l’accesso dei lavoratori in pozzi neri, fogne, camini, fosse, gallerie e in generale in ambienti e recipienti, condutture, caldaie e simili, ove sia possibile il rilascio di gas deleteri, senza che sia stata previamente accertata l’assenza di pericolo per la vita e l’integrità fisica dei lavoratori medesimi, ovvero senza previo risanamento dell’atmosfera mediante ventilazione o altri mezzi idonei. Quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, i lavoratori devono essere legati con cintura di sicurezza, vigilati per tutta la durata del lavoro e, ove occorra, forniti di apparecchi di protezione.
L’apertura di accesso a detti luoghi deve avere dimensioni tali da poter consentire l’agevole recupero di un lavoratore privo di sensi.

D.Lgs. 81/08 Allegato IV Requisiti dei luoghi di lavoro

3. VASCHE, CANALIZZAZIONI, TUBAZIONI, SERBATOI, RECIPIENTI, SILOS
3.1. Le tubazioni, le canalizzazioni e i recipienti, quali vasche, serbatoi e simili, in cui debbano entrare lavoratori per operazioni di controllo, riparazione, manutenzione o per altri motivi dipendenti dall’esercizio dell’impianto o dell’apparecchio, devono essere provvisti di aperture di accesso aventi dimensioni tali da poter consentire l’agevole recupero di un lavoratore privo di sensi.
3.2.1. Prima di disporre l’entrata di lavoratori nei luoghi di cui al punto precedente, chi sovraintende ai lavori deve assicurarsi che nell’interno non esistano gas o vapori nocivi o una temperatura dannosa e deve, qualora vi sia pericolo, disporre efficienti lavaggi, ventilazione o altre misure idonee.
3.2.3. I lavoratori che prestano la loro opera all’interno dei luoghi predetti devono essere assistiti da altro lavoratore, situato all’esterno presso l’apertura di accesso.
3.2.4. Quando la presenza di gas o vapori nocivi non possa escludersi in modo assoluto o quando l’accesso al fondo dei luoghi predetti è disagevole, i lavoratori che vi entrano devono essere muniti di cintura di sicurezza con corda di adeguata lunghezza e, se necessario, di apparecchi idonei a consentire la normale respirazione.

Ebbene.

Possiamo celebrare quanto vogliamo i nuovi accordi, i nuovi contenuti, le nuove modalità organizzative e procedurali. Fare convegni, seminari, webinar, ecc.
Ma la domanda è: abbiamo imparato a leggere ed applicare le norme?
Non è polemica. Ma è rabbia e dolore.
Rabbia e dolore per la morte dei Giovanni, degli Antonio e dei Vincenzo che sono morti perché nessuno e dico nessuno (me compreso!!!!!!!) ha (o aveva) mai letto e quindi applicato le misure di prevenzione che la norma, quella del 1955, già ci forniva.
Confesso che da Ingegnere Civile Idraulico solo nel 2010 ho scoperto che il settore con un’incidenza infortunistica mortale più elevata dovuta a spazi confinati erano le costruzioni idrauliche (con il 16,7%) e lo smaltimento dei rifiuti solidi, delle acque di scarico e simili (con l’11,9%). L’ho “scoperto” dopo 20 anni dalla laurea!!
Ma oggi nel 2025 per fortuna abbiamo l’Accordo Stato Regioni.
Oggi finalmente sappiamo come procedere, organizzare e formare.
E quindi nessun lavoratore rischierà di morire in uno spazio confinato,
Anzi che dico: in un ambiente “sospetto di inquinamento”.

Ing. Carmine Piccolo

Chi siete? Dove andate? Cosa portate? Un fiorino.

Me la ricordo ancora la frase ”Chi siete? Dove andate? Cosa portate? Un fiorino” in quel film di Massimo TroisiNon ci resta che piangere”. Era il 1984 ed io avevo appena 11 anni.
E dello stesso film mi ricordo anche la frase “Ricordati che devi morire”. E come rispose Massimo “Mò me lo segno” anche io pensai che prima o poi dobbiamo morire tutti. Ma non pensavo di dover morire cadendo da un’impalcatura a soli 41 anni.
Si, ero un lavoratore come si dice “a nero”. E in quel cantiere io non ci dovevo stare.

E forse, se qualcuno avesse visto come me il film, io in quel cantiere non ci sarei mai entrato e non sarei morto.
Ma si sa nella vita, e in quel caso nella morte, le cose non avvengono mai da sole, ma sono un insieme di situazioni che possono decidere il destino nel bene e nel male.
È pur vero che era un sabato pomeriggio, e si lavorava anche di sabato perché bisognava correre per concludere i lavori. E per far prima i miei colleghi (quelli “inquadrati”) mi avevano chiesto di andare con loro per finire il lavoro e tornare casa “prima”.
Era sabato, e tutti almeno il sabato pomeriggio vorrebbero stare a casa per “prepararsi” alla domenica. Per accompagnare mia moglie a fare la spesa. Per giocare con le mie bambine.
Ma io a casa non ci sono tornato.
Quello che poi non si è capito è come e perché sono caduto da quell’impalcatura.
Che fossi morto è certo. Ma da dove fossi caduto purtroppo non è mai stato proprio chiaro.
Si, è vero che sul ponteggio hanno riscontrato l’assenza di una “tavola di ponte”.
Una tavola di ponte di 50×180 cm che mancava dal piano del ponteggio. Ma io non ricordo se sono caduto proprio da quel punto dove mancava la tavola. E anche se lo ricordassi come farei a raccontarlo?
Sui giornali c’era scritto che il ponteggio da dove sono caduto non era a norma.
E qualcuno ha anche scritto chiedendosi perché io fossi su quel ponteggio “fuori norma”.

Ma la domanda è: come potevo sapere io se quel ponteggio era a norma o meno?
Ero “a nero”. E non avevo mai fatto nessun corso di formazione, nessuna visita medica da parte del medico competente.
Insomma non ero consapevole dei rischi presenti in un cantiere e in quel cantiere, forse se avessi fatto un corso di formazione sarei stato in grado di sapere che quel ponteggio era fuori norma.
E forse non sarei salito. Forse…
Ma io ero “a nero” e a quel corso di formazione non ho mai partecipato.
Ma la domanda è sempre la stessa. Che ci facevo in quel cantiere?
E le frasi di quel film mi ritornano sempre in mente.
Chi siete? Dove andate? Dove andate? Un fiorino.
Ed io avrei risposto: Sono un lavoratore a nero, non formato.
E chi era all’ingresso avrebbe dovuto rispondere: allora non puoi entrare!
E quel sabato sarei tornato a casa, magari senza soldi, ma certamente vivo per trascorrerlo con mia moglie e le mie figlie.

Ing. Carmine Piccolo

La “governabilità” dei rischi

Sono passati 12 anni da quella maledetta sera, quando alle 23:05 una nave urtò la torre piloti di Genova causando la morte di 9 giovani vite.
Non entro nel merito della dinamica dell’evento nota a tutti, ma vorrei ritornare su quello che è stato uno dei quesiti posti alla base del processo, e che ha coinvolto Datori di Lavoro e RSPP del Corpo Piloti, dell’Autorità Portuale e dei Rimorchiatori Riuniti.

Quanto era prevedibile che una nave colpisse la torre?

È questo il quesito posto al centro del procedimento giudiziario e riportato, come di seguito esposto, nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari:

Il datore di lavoro e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ….. omettevano di valutare il notorio rischio derivate da urti di navi in manovra legati ad errori umani, e/o avarie, omettevano di aggiornare il documento di valutazione dei rischi e non predisponevano alcuna misura atta a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori in relazione a tali eventi. Con negligenza, imprudenza ed imperizia e con violazione degli artt. 17, 28 e 33 del decreto 81/2008.

Certo con il senno di poi tutti abbiamo pensato: ma chi è che ha posizionato la torre in quel punto?
È naturale pensarlo.
Ma qui stiamo parlando di omessa valutazione dei rischi nell’ambito del documento previsto dall’art.28 del D.Lgs. 81/08
E poi mi chiedo.
Ma se il RSPP avesse evidenziato la presenza di tale rischio cosa sarebbe accaduto?
Il Datore di lavoro avrebbe spostato la torre?
Oppure avrebbe messo una barriera di protezione davanti alla torre?
Oppure avrebbe impedito il transito delle navi in adiacenza alla torre?
La risposta non è disponibile.

La mia analisi è quella di un RSPP che deve prevedere qualcosa che è imprevedibile prima che accada, ma diventa prevedibile quando poi è accaduta!
Rammentiamo che non è facile per un RSPP evidenziare al Datore di Lavoro una serie di rischi con scarsa o minima probabilità di evento. Si rischia che più che eliminare il rischio… si cambia il RSPP!
Ma per fortuna questo non accade.

Il caso della Torre Piloti però ha introdotto un concetto innovativo a mio parere, ossia la distinzione tra rischi interni e rischi esterni ed il concetto di “governabilità” dei rischi.

A tal fine si estrapolano alcuni punti riportati nella sentenza n. 1660 del 15/09/2020 del Tribunale di Genova.
I “rischi interni” all’ambiente di lavoro devono essere gestiti e governati dal datore di lavoro e conseguentemente devono essere sempre valutati nel relativo documento al fine della loro eliminazione e del loro depotenziamento sulla base delle più idonee misure cautelari da individuare attraverso la corretta attivazione dei vari strumenti predisposti dal decreto 81/08.

In merito ai “rischi esterni”, nella sentenza si esclude la possibilità di valutazione ai sensi dell’art. 28 dell’urto da nave contro la torre piloti. Infatti risulta possibile che un rischio possa essere inserito e valutato nel relativo documento qualora, a seguito della sua attenta valutazione, il datore sia in grado attraverso la puntuale adozione dei vari strumenti stabiliti dal decreto di prevenirne la concretizzazione, eliminandolo ovvero, laddove si concretizzi, di depotenziarne le conseguenze lesive rispetto all’integrità dei suoi dipendenti.

Ciò in quanto se si tratta di rischio non gestibile e governabile dal datore di lavoro la sua valutazione all’interno del documento di cui all’art. 28 perde evidentemente senso nella prospettiva della funzione che la valutazione stessa deve assolvere.

L’art. 33 correla il compito del servizio di prevenzione di provvedere alla valutazione dei rischi alla elaborazione delle misure preventive e protettive, nonché all’elaborazione di procedura di sicurezza ed alla proposta di programmi di informazione e formazione dei lavoratori, e da ciò consegue che i rischi valutati dal servizio non possano che essere quelli eliminabili o depotenziabili proprio attraverso le misure e procedure, nonché i sistemi di controllo e dei programmi di formazione ed informazione dei lavoratori.
Si pensi ad esempio alle calamità naturali o del deragliamento di un treno che possono coinvolgere luoghi di lavoro ed i relativi lavoratori occupanti.
Appare indubbio, come riportato nella sentenza di che trattasi che fa riferimento agli eventi di cui sopra, che tali rischi – proprio perché ingovernabili da parte del datore di lavoro – non possono rientrare nella valutazione contenuta nel documento di cui agli artt. 17 e 28, dal momento che tale valutazione ed il corretto compendio di strumenti organizzativi aziendali finalizzati alla prevenzione ed alla protezione resterebbero del tutto ininfluenti nella prospettiva della funzione che devono assolvere.

In definitiva dunque non è tanto la natura interna o esterna della fonte di produzione del rischio a fungere da discrimine al fine di individuare in casi in cui è doverosa la sua valutazione da parte del datore all’interno del relativo documento, quanto piuttosto la concreta governabilità per il datore del rischio stesso a mezzo dei vari strumenti organizzativi predisposti sulla base della previsione del decreto 81/08.

Ne deriva che l’art. 28 del decreto 81/08, nella parte in cui impone al datore la valutazione nel relativo documento di “tutti i rischi”, deve intendersi riferito ai soli rischi governabili da parte del datore di lavoro attraverso i vari strumenti predisposti dal decreto stesso.

I RSPP sono stati tutti assolti.

Ma la domanda resta sempre nella nostra testa. Perché proprio in quel punto la torre?
Ma questa non è materia da D.Lgs. 81/08.

Ing. Carmine Piccolo

La scala e il rischio proprio

Era un sabato mattina, c’era il sole e Napoli era in fermento come al solito nelle zone del centro storico, e io dovevo pulire le vetrine del negozio.
Lo avevo già fatto tante volte. Semplice e “pulito” come lavoro. Ma non era il solito sabato. Quel mattino mio fratello mi chiamò e mi disse che aveva un “brutto male”.
Restammo a telefono per un tempo indefinito. Non so cosa gli dissi. Molte volte in questi casi non ci sono le parole giuste, ma si vuole far sapere che “ci sei”.
Ripresi a lavorare e piazzai la scala vicino alla vetrina per pulirla. Non feci caso al fatto che la strada fosse leggermente in pendenza e che avessi messo la scala in posizione non corretta rispetto alla pendenza. Mi accorsi anche che non tutti i piedi della scala “toccavano” a terra. Mi guardai intorno, e raccolsi un pezzo di carta per “stabilizzare” la scala: la famosa zeppa.
Salii sulla scala e dopo poco, non so perché, sono caduto. Ho battuto la testa e purtroppo sono morto.
In tanti si sono chiesti perché.
Eppure la scala era a norma e aveva anche i corretti riferimenti alla norma UNI 131.
La scala era di mia proprietà. L’avevo comprata io da poco, era nuova.
Mi fecero anche l’autopsia per capire se avessi preso la scossa da una presa che penzolava fuori alla vetrina. Ma non era stata quella la causa.

Ah, dimenticavo. Ero un lavoratore autonomo di quelli di cui all’art. 21 del D.Lgs. 81/08, quello che recita quanto segue:

Articolo 21 – Disposizioni relative ai componenti dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del Codice civile e ai lavoratori autonomi
1. I componenti dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del Codice civile, i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell’articolo 2222 del Codice civile, i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti devono:
a) utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III, nonché idonee opere provvisionali in conformità alle disposizioni di cui al Titolo IV;
b) munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III;
c) munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto.
2. I soggetti di cui al comma 1, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno facoltà di:
a) beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
b) partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

Ma non lo conoscevo questo art. 21. Non lo avevo mai letto. Anzi non avevo mai letto il D.Lgs. 81/08.
Ma ogni volta che lo rileggo (e qui dove sono ne ho di tempo per rileggerlo) mi accorgo che non era un obbligo partecipare a corsi di formazione specifici in materia di sicurezza. È facoltà!!!
Quindi se è facoltà non è un obbligo e allora mi chiedo come avrei potuto conoscere i rischi connessi all’utilizzo della scala.
E nemmeno era obbligo (ma facoltà) di beneficiare della sorveglianza sanitaria. E se fossi caduto per le vertigini considerata anche la mia età?
Forse se avessi fatto una visita dal medico competente avrei saputo che non potevo salire sulla scala. E forse non sarei morto!
E poi un amico qui, e vi dico che qui dove sono di amici “morti” come me (quelli delle “morti bianche”) ce ne sono tanti, mi ha detto che c’è un altro articolo del D.Lgs. 81/08 che non conoscevo:

Art. 113 Scale
5. Quando l’uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti pericolo di sbandamento, esse devono essere adeguatamente assicurate o trattenute al piede da altra persona.

Quindi forse non dovevo utilizzare la scala da solo e dovevo andare a fare quel lavoro con un’altra persona? Ma io ero un lavoratore autonomo e mi hanno dato questa definizione:

Lavoratore autonomo: secondo la definizione il lavoratore autonomo è un lavoratore indipendente ovvero che svolge la propria attività da solo, senza l’aiuto di propri dipendenti o equiparati (quindi senza organizzazione) e che si impegna a portare a compimento una determinata opera che gli è stata affidata dal committente con gestione a proprio rischio.

Alla fine sono morto per colpa mia, perché la gestione del rischio era a carico mio e perché il rischio di cadere dalla scala (e poi morire) era proprio della mia attività.
Sono morto per un rischio proprio!!!
Un’ultima cosa. Ma perché qui ci chiamano “morti bianche”? Continuiamo a chiedercelo tutti noi quassù ma non riusciamo a darci una risposta.

 

Ing. Carmine Piccolo

L’ Opel Corsa e… le quattro ruote nuove

Sono passati più di 20 anni e ancora mi ricordo le parole dette dal Responsabile di un supermercato (alias preposto) alla fine di un sopralluogo.
Mi accompagnò alla porta e salutandomi mi disse:
Ingegne’. Ma io tengo un’Opel Corsa con le quattro ruote nuove. Ma vado sicuro?
Sto ancora oggi a chiedermi se mi stesse prendendo per i fondelli (per non dire c…o!!) o aveva capito il senso del mio lavoro, e quindi se fosse giusto che un’autovettura avesse le ruote nuove e non “lisce” per eliminare o ridurre il rischio di scivolamento (e quindi un possibile infortunio “in itinere”)
Eppure non era cominciata male la giornata. Me lo ricordo.
Durante il sopralluogo parlavamo del più e del meno e passeggiavamo per i reparti.
Il macellaio, molto bravo nonché figlio di macellaio, sfasciava la carne. I DPI diceva di averli, che gli erano stati forniti. Ma quando gli ho chiesto dove fossero mi ha risposto:
Ingegne’ adesso li tenevo. Stanno qui dentro. No attenzione stavano qui! Ma chi li ha presi???. Sono sicuro che stavano qui.
Ingegnè non mi dite niente. Non li trovo. Forse li avrà presi il salumiere per sfasciare il prosciutto.
Ma poi. Non è mai successo niente. Nessuno si è mai tagliato. Perche deve succedere proprio a me???
Saluto il macellaio e sempre passeggiando per il supermercato trovo un’ uscita di sicurezza chiusa a chiave con merce che ne impedisce la fruibilità.
Chiedo al Responsabile che mi accompagna (sempre preposto) e lui mi risponde:
Ingegnè da qui i clienti scappano con la merce e noi dobbiamo corrergli appresso. Ma poi Ingegnè perché stamattina “trovate” tutti questi problemi. Perché non andate in un altro supermercato? Proprio qua dovevate venire?

Non era ancora Natale, faceva caldo, ma gli estintori erano già spariti. In realtà c’erano. Ma erano coperti da merce o bancali. E anche qui chiedo al mio accompagnatore (anche addetto antincendio), che stava cominciando ad innervosirsi, come mai gli estintori non fossero visibili e fruibili. La sua risposta fu la seguente:
Ma ingegnè non è che portate nu poco male? Comm po’ piglia fuoco o magazzin…????
Si era fatto tardi, dovevo andare via, ma prima di uscire guardai la scala che utilizzava uno scaffalista. Mancava di ogni riferimento normativo ed era sprovvista dei piedini in gomma antiscivolo.
Guardo il mio accompagnatore e senza chiedere “leggo” nel suo viso una espressione di curiosità di chi si chiede cosa non andasse in quella scala.
Nel mentre avevo visto fili elettrici volanti e prese multiple non a norma. E ancora avevo visto che la scaffalista lavorava con una scarpa tacco 20, e non ultimo un muletto che “sfrecciava” nel parcheggio clienti con il conducente senza cintura di sicurezza. Ma questo all’omino che mi accompagnava non lo avevo detto (ma scritto nel rapporto di audit).
Mi accompagnò all’uscita, felice che quel tormento fosse finito e con espressione felice mi salutò con la fatidica frase.
Me ne andai curioso e pensieroso con gli stessi pensieri di oggi.
L’ho poi rivisto l’omino dell’Opel Corsa.
Era il 2021, l’anno dopo il covid, e in parte portavamo ancora la mascherina.
Lui si ricordò di me. Erano passati oltre 10 anni dal nostro primo incontro.
Per scherzo gli chiesi: E l’Opel Corsa? E le ruote?
Lui sorridente mi rispose: Ingegnè che ne sapit vuie. S’a so rubata.
E io tra me e me pensai:
Art. 15 D.Lgs. 81/08 Misure Generali di tutela: È prioritaria l’eliminazione dei rischi.

Ing. Carmine Piccolo